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E’ da parecchio che non scrivo. Un po’ perché delle cose viste poche mi hanno fatto superare la pigrizia del mettersi al pigiare i tastini della tastiera, un po’ perché sto passando un periodo per cui, come si dice a Venezia, “ze tuto tajà” intendendo che tutto è annacquato o, peggio, falsificato come quando si allunga il vino pregiato con del vino da taglio (per l’appunto).
I primi appunti risalgono ancora ai primi di gennaio, il periodo in cui più mi sento orfana del mio non essere più bambina e non aver più diritto alla magia di Babbo Natale e, soprattutto, della Befana.

In occasione dell‘iniziativa teatrale dedicata ai bambini organizzata al Crt ho visto la Biancaneve e la Cenerentola secondo Emma Dante. Meglio la Biancaneve (lo specchio vale lo spetttacolo) che la Cenerentola, per certo Emma Dante non mi convince. Di inedito solo il colorismo: in una costruzione teatrale in cui la scenografia quasi si identifica con il corpo e i costumi degli attori il disegno di quest’ultimi, soprattutto in temine di colore e texture, e l’uso della luce nella costruzione delle scene sono fondamentali: colori caldi, luce puntiforme, una luce barocca, un cromatismo sapiente ed inedito, l’unica cifra davvero autografa di Emma Dante. Il resto è un intelligente collage di idee altrui: le sottovesti di Pina Baush, il movimento degli attori ripreso dalla commedia dell’arte con le marionette e i riferimenti all’arte circense, l’ammiccamento piacione al pop trattandolo con quel distacco blasé che il finale di Six degrees of separations ha consigliato rifuggere per il suo essere anemica e vuota farsa. Pubblico sopra i quaranta, soprattuto per Cenerentola in cui abbondano i riferimenti agli anni Ottanta che possono far ridere solo chi ha vissuto quegli anni, risate che suscitano in me lo stesso imbarazzo degli anziani che ballano cercando di imitare i giovani: loro si sentono “alla moda”, a te sembrano i vecchietti che fanno il trenino.

Giuseppe Penone, "Pressione"

Casualmente non ho perso l’esposizione antologica sull’arte povera, visibile alla Triennale fino al 29 gennaio scorso. La posizione concettuale dell’arte povera è affascinante ma scivolosa, degli artisti esposti alcuni sono più incisivi di altri e, rispetto ad uno stesso artista, alcune opere sembrano più riuscite: il Pistoletto degli specchi più straight di quello degli stracci con bollitori, Pascali e Penone più coinvolgenti di un Calzolari, e così via. Certo, è anche gusto personale. Parlando con la mia amica si conveniva su come il limite, o la deriva, di certa arte contemporanea, concettuale e non, sia il tendere a sconfinare nella biografia da parte di alcuni artisti quasi a render superflua l’esistenza di un vocabolario condiviso proponendo un linguaggio infarcito di riferimenti personali che per esser colti necessitano di una spiegazione (l’annosa questione didascalia sì didascalia no). Mi si dirà che l’arte povera nasceva con la volontà di rifiutare proprio quel sistema di segni riconosciuto come consustanziale a quella società del consumo capitalista che si voleva mettere in discussione. Ma questa fuga dalla Storia per rifugiarsi in una storia minore si è rivelata, con il senno del poi, controproducente. Questo abbiamo pensato di fronte a due opere presenti in Triennale: Rapsodie Inepte di Pier Paolo Calzolari e Senza titolo di Jannis Kounellis. Nella prima, senza la spiegazione per cui per l’artista lo stagno è materiale elegante, senza essere “ricordo” come il piombo, nel ricorso al sublime ed il tabacco è usato come immissione del dubbio per il fascino di un aroma che possiede organicità latente non scoperta, difficile è capire il perché della scelta proprio di quei materiali e, al tempo stesso, quelle spiegazioni risultano ridondanti rispetto al manifesto dell’arte povera stessa. Mentre in Kounellis il foro nel muro riempito di pietre è sia dentro che fuori quanto vuole contestare, con il suo essere porta, soglia, passaggio, vuoto nel pieno, vuoto riempito, stipato, horror vacui, rifiuto dei materiali moderni a favore della pietra e di tecniche povere come il muro a secco.