Archivio per febbraio, 2012

Tornando sovraccarica delle borse della spesa mi sono incastrata tra le porte dell’ascensore. Son riuscita a sgusciar via ma quelle niente, son rimaste semi aperte, l’ascensore immobile malgrado pigiassi il tastino. In un primo momento ho pensato “del resto, rimanere chiusa in ascensore di sabato pomeriggio ti mancava come cosa”; poi che sarebbe stato uno sbattimento dover telefonare nell’eventualità il ciccetto non si fosse deciso a mettersi a fare il suo dovere; poi che, forse, non sarebbe stato necessario telefonare: se qualcuno l’avesse chiamato l’ascensore avrebbe potuto sbloccarsi. Ho tolto la chiavetta, rimesso la chiavetta, rigirato la chiavetta, ripigiato il bottoncino. Nulla. Ho guardato le porte semi aperte, ho provato a spingere la porta al piano ma era bloccata. Spazientita per tanta stupidità dimostrata da delle porte che avevano osato bloccarsi per una comune busta della spesa mi son detta che dovevo far scattare il meccanismo che avrebbe fatto capire al ciccetto che doveva ricominciare a fare il suo dovere, salire. Prima ho provato a chiudere le porte spingendole l’una verso l’altra poi, sempre più contrariata dalla resistenza che quello stupido ascensore stava dimostrando, le ho spinte per aprirle: quelle si son aperte, si è sbloccata anche la porta al piano, l’ho aperta e chiusa, rinfilato la chiavetta, pigiato il bottoncino, il ciccetto ha chiuse le porte scorrevoli e mi ha portato al mio piano. Mentre salivo mi son stupita di come non mi fossi spaventata, nè fatta prendere dal panico ma avessi gestito la cosa come se rimanere bloccati in un ascensore (che fa i capricci spesso e a volte rimane fuori servizio per ore) fosse la cosa più normale mi potesse accadere. Ripensandoci mentre pulivo casa, si sa che nulla come pulire il bagno concilia la riflessione, mi son chiesta se la mia tranquillità fosse da ascrivere al fatto che gli imprevisti ho imparato ad affrontarli come piccoli fastidi gestibili e se, questo, fosse dovuto a quel passaggio di tempo che è l’età. Ho pensato a come, in questi tempi, ai giovani si chieda di esser come sono io alle soglie della maturità e a come, così facendo, si castri ciò che l’esser giovani significa: aver meno sangue freddo, forse, ma di certo avere quelle energie e quell’inventiva che fa veder cose dove altri vedono il solito, se non proprio il nulla. Ho pensato che una società che fa crescere troppo in fretta i suoi giovani è danneggiata due volte: perde la forza che, per sua natura, le garantirebbe la possibilità di rinnovarsi e acquista una maturità fragile, recitata, non sentita, non vissuta, non raggiunta, non maturata. Crea scarti, i maturi per anagrafe, che non sanno che farsene del loro aplomb e che non possono nemmeno re-inventarsi come giovani di ritorno, anche a costo di sfiorare il ridicolo, visto che il giovane è stato cassato tout court. La nostra è una società vecchia non solo per la bassa natalità ma perché, la sua parte giovane, la uccide sul nascere.

E’ da parecchio che non scrivo. Un po’ perché delle cose viste poche mi hanno fatto superare la pigrizia del mettersi al pigiare i tastini della tastiera, un po’ perché sto passando un periodo per cui, come si dice a Venezia, “ze tuto tajà” intendendo che tutto è annacquato o, peggio, falsificato come quando si allunga il vino pregiato con del vino da taglio (per l’appunto).
I primi appunti risalgono ancora ai primi di gennaio, il periodo in cui più mi sento orfana del mio non essere più bambina e non aver più diritto alla magia di Babbo Natale e, soprattutto, della Befana.

In occasione dell‘iniziativa teatrale dedicata ai bambini organizzata al Crt ho visto la Biancaneve e la Cenerentola secondo Emma Dante. Meglio la Biancaneve (lo specchio vale lo spetttacolo) che la Cenerentola, per certo Emma Dante non mi convince. Di inedito solo il colorismo: in una costruzione teatrale in cui la scenografia quasi si identifica con il corpo e i costumi degli attori il disegno di quest’ultimi, soprattutto in temine di colore e texture, e l’uso della luce nella costruzione delle scene sono fondamentali: colori caldi, luce puntiforme, una luce barocca, un cromatismo sapiente ed inedito, l’unica cifra davvero autografa di Emma Dante. Il resto è un intelligente collage di idee altrui: le sottovesti di Pina Baush, il movimento degli attori ripreso dalla commedia dell’arte con le marionette e i riferimenti all’arte circense, l’ammiccamento piacione al pop trattandolo con quel distacco blasé che il finale di Six degrees of separations ha consigliato rifuggere per il suo essere anemica e vuota farsa. Pubblico sopra i quaranta, soprattuto per Cenerentola in cui abbondano i riferimenti agli anni Ottanta che possono far ridere solo chi ha vissuto quegli anni, risate che suscitano in me lo stesso imbarazzo degli anziani che ballano cercando di imitare i giovani: loro si sentono “alla moda”, a te sembrano i vecchietti che fanno il trenino.

Giuseppe Penone, "Pressione"

Casualmente non ho perso l’esposizione antologica sull’arte povera, visibile alla Triennale fino al 29 gennaio scorso. La posizione concettuale dell’arte povera è affascinante ma scivolosa, degli artisti esposti alcuni sono più incisivi di altri e, rispetto ad uno stesso artista, alcune opere sembrano più riuscite: il Pistoletto degli specchi più straight di quello degli stracci con bollitori, Pascali e Penone più coinvolgenti di un Calzolari, e così via. Certo, è anche gusto personale. Parlando con la mia amica si conveniva su come il limite, o la deriva, di certa arte contemporanea, concettuale e non, sia il tendere a sconfinare nella biografia da parte di alcuni artisti quasi a render superflua l’esistenza di un vocabolario condiviso proponendo un linguaggio infarcito di riferimenti personali che per esser colti necessitano di una spiegazione (l’annosa questione didascalia sì didascalia no). Mi si dirà che l’arte povera nasceva con la volontà di rifiutare proprio quel sistema di segni riconosciuto come consustanziale a quella società del consumo capitalista che si voleva mettere in discussione. Ma questa fuga dalla Storia per rifugiarsi in una storia minore si è rivelata, con il senno del poi, controproducente. Questo abbiamo pensato di fronte a due opere presenti in Triennale: Rapsodie Inepte di Pier Paolo Calzolari e Senza titolo di Jannis Kounellis. Nella prima, senza la spiegazione per cui per l’artista lo stagno è materiale elegante, senza essere “ricordo” come il piombo, nel ricorso al sublime ed il tabacco è usato come immissione del dubbio per il fascino di un aroma che possiede organicità latente non scoperta, difficile è capire il perché della scelta proprio di quei materiali e, al tempo stesso, quelle spiegazioni risultano ridondanti rispetto al manifesto dell’arte povera stessa. Mentre in Kounellis il foro nel muro riempito di pietre è sia dentro che fuori quanto vuole contestare, con il suo essere porta, soglia, passaggio, vuoto nel pieno, vuoto riempito, stipato, horror vacui, rifiuto dei materiali moderni a favore della pietra e di tecniche povere come il muro a secco.