Ecco, io non so se chi era a teatro con me, mentre rideva e sghignazzava a mio parere più per darsi un tono che per effettiva necessità, abbia “visto” quanto qui scritto antonio-rezza-flavia-mastrella-paso-anelante.
Anelante è stato il mio primo spettacolo del duo RezzaMastrella, non so dire se sarà l’ultimo, ma posso dire di non esser stata folgorata sulla via di Damasco, non mi sono innamorata.

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Certo mi sono divertita, vorrei rivederlo, leggere il testo per appuntare degli incisi  abbandonati nelle sue pieghe, ne ricordo solo alcuni, le rette parallele sono di certo omosessuali perché solo nell’infinito potranno felicemente incontrarsi (niente di più appropriato vista l’infinita procrastinazione del DL Cirinnà), un riferimento alla provincia quale tomba di ogni emancipazione per noi italiani condannati al suo orizzonte, malgrado si sia a teatro a ridere guardando l’ultimo lavoro di Rezza e Mastrella, ma nel complesso sono uscita da teatro con la sensazione di aver assistito a “un meglio di”, uno spettacolo oramai di maniera. Leggendo qui e ho avuto modo di scoprire che delle novità ci sono, come il fatto che Rezza non sia più solo in scena, e forse, se non ho trovato nulla di inedito nella ideazione/costruzione di quel che gli autori definiscono habitat, è perché il duo è sulla scena da molto tempo e può aver già fatto scuola con l’idea di una scenografia che si muove, si plasma, con le necessità della rappresentazione. Ho trovato molto bello, sul piano scenico, il ritorno all’acqua e al subacqueo, rodata metafora del subconscio e delle origini, il continuare a parlare malgrado si sia immersi in un ambiente che contiene solo animali muti a sottolineare e ribadire un nostro parlare incessante, quasi onanista, che non ascolta ma sovrasta: mi è sembrato di trovarmi immersa in uno stagno popolato da ninfee, lucciole e esseri anfibi.

Forse è un po’ il limite del teatro di ricerca, individuare dei temi ed un linguaggio e poi riproporli ossessivamente, quasi a divenire un format, correndo il rischio di risultare ripetitivi per chiunque non ne diventi dipendente, chiunque non se ne senta talmente compreso da non stancarsene mai. È lo stesso rischio che corrono Ricci&Forte, anche se questi ultimi mi sembrano cogliere lo zeitgeist più di RezzaMastrella, che paiono riproporre temi forse senza tempo ma in modo datato.

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Eppure il dubbio, scrivendo queste parole, viene: forse siamo ancora allo stesso punto, forse abbiamo ancora bisogno anche di una critica tradizionale alla famiglia tradizionale, del rifiuto di un’ idea di Dio in chiave solo normativa, del ribadire il legame tra Eros e Thanatos, di far “parlare” dei culi (queste ultime due, le parti che ho trovato più noiose). Forse è meglio scrivere che mi piacerebbe queste cose non facessero più ridere, che non smuovessero più nulla perché si è già da un’altra parte, a misurarsi con limiti nuovi, o con sguardi nuovi sui soliti muri.

Ricci-Forte-Still-life-02Solo poche parole su StillLife di Ricci&Forte, soprattutto per correggere l’impressione che mi lasciò Immitationofdeath visto al Piccolo oramai due anni fa: quello che mi sembrò un addomesticarsi in un estetismo eccessivo in Still Life è diventano crescita artistica, una sublimazione del percorso fatto fino ad ora senza perdere l’ intensità e la forza innovativa degli esordi. Lo spettacolo è del 2013, considerati gli argomenti sostenuti durante il recente FamilyDay, questo spettacolo dovrebbe essere riproposto al più presto e proprio in quelle scuole che i partecipanti del suddetto giorno della famiglia vorrebbero a loro immagine e somiglianza e non specchio della realtà della vita.ricci-forte

In questi due mesi ho visto due spettacoli: Paranza. Il Miracolo regia Clara Gebbia ed Enrico Roccaforte ed Too late – (Antigone) Contest #2 di Motus.

PARANZA-WEBParanza. Il Miracolo: una riflessione sulla disgregazione sociale contemporanea dovuta alla nostra incapacità di sentirci simili al prossimo, sempre impegnati a fare delle distinzioni tanto da arrivare a dirsi “certo, sono misarabile, ma quel miserabile è più miserabile di me, non  sono come lui” impedendo così l’ accumunarsi, l’ identificarsi, l’unirsi e il rafforzarsi a vicenda, fondamentali per ottenere qualsiasi cosa. Mutuando una usanza popolare per cui i fedeli dai vari quartieri di Napoli e dalla provincia si uniscono in un pellegrinaggio alla Madonna dell’Arco, i quattro protagonisti, ognuno con il proprio diritto da richiedere,  si uniscono in questa “paranza”, una processione laica, che diverrà efficace quando i quattro si renderanno conto che, sebbene siano diverse le provenienze sociali e le richieste, avranno davvero forza quando la richiesta di ciascuno diverrà la richiesta di tutti, quando sarà chiaro che il condividere un fine comune assottiglia, se non elimina, le apparenti differenze e un manager licenziato avrà lo stesso peso, perché è la stessa umanità, di chi ha passato una vita sempre sul ciglio della strada.hqdefaultI registi si ricollegano alla cultura popolare, sia per il tema della processione che per le musiche con i testi in dialetto che si rifanno alla riscoperta dei canti popolari in chiave di denuncia sociale iniziata negli anni Settanta, per mettere al centro dell’attenzione quel che è il tema dei nostri giorni: l’incapacità di essere solidali, di mettersi nelle scarpe altrui; così concentrati sul nostro ombelico, il prossimo è visto come una minaccia al proprio status quo e le parole che si leggono in questi giorni sui migranti ne sono una dolorosa, e per me vergognosa, conferma. Mi chiedo, come anche Moretti nel suo ultimo film, se questa scelta registica possa essere ancora efficace su di un piano comunicativo.

Antigone-01Di Motus avevo visto X (ics) racconti crudeli della giovinezza ad una Biennale Teatro di alcuni anni fa, uno spettacolo sulla giovinezza scritto da chi giovane non è più e cerca di ricostruire ciò che può voler dire, di cui ho un ricordo vago e al tempo stesso intenso, tanto da tenere il pieghevole di sala sempre in vista in giro per casa. Too late è una riflessione sul potere: quello politico, quello della famiglia, delle leggi, della società stessa che ci riduce a cani scodinzolanti, o ringhianti, ma comunque inoffensivi. AntigoneUna riflessione sul potere che è anche riflessione sul teatro: gli attori recitano la parte di loro stessi impegnati a mettere in scena Antigone raccontando i loro vissuti, i dubbi sull’interpretazione da dare al personaggio. Ci sono riferimenti all’oggi, a pezzi di storia recente troppo frettolosamente dimenticati, come fu la guerra contro la Serbia, ma c’è anche una mancanza: manca il potere che seduce, che ammalia, che ottenebra con la sua apparente leggerezza, il potere alla Renzi con il suo piffero che molti, quasi tutti, incanta. Il potere messo in scena è, infatti, un potere alla Berlusconi, oligarca ormai avviato sul viale del tramonto, soppiantato dalla  seducente e pervasiva inconsistenza del suo successore. Quello di Motus è un teatro dove corpo, voce e parola occupano la scena, pressochè priva di scenografia, e dove la parola sembra acquistare forza solo quando scritta sul corpo stesso come se, da sola, non avesse quella capacità di penetrazione che raggiunge quando riesce a modulare lo choc visivo ed emotivo a cui la fisicità del corpo ci espone.

Scrivo molto meno, e non intendo solo qui. Non perché non abbia di che scrivere, o meglio, anche, ma soprattutto perché mi sento imprigionata in una morsa chiamata inutilità. Che poi non è proprio il sostantivo corretto: inadeguatezza è quello giusto. Forse, proprio perchè scrivo meno, leggo molto di più e mi rendo conto che di quel molto che leggo, alla fine, sedimenta poco. Sto seguendo dei siti che dovrebbero fare tendenza, o si propongono come tali, come RivistaStudio, e i contributi che ho modo di leggere mi sembrano, più che articoli, esercizi onanistici che poco aggiungono al general intellect e molto all’autostima dell’autore del post che immagino passare le sere a contare/aspettare i like o le condivisioni del suo articolo. 

Insomma il mondo va in una direzione quando la mia è ostinatamente, mio malgrado, contraria. Ciò nonostante capita di fare anche piacevoli scoperte, come DoppioZero.

Ma torniamo a questo blog e a quello di cui dovrebbe raccontare.

A distanza di pochi giorni Milano ha assistito a due inaugurazioni, una più istituzionale, quella di Expo, l’altra un po’ meno, se non per nulla, quella della sede milanese della Fondazione Prada.

voloduccelloDi Expo si è detto e scritto tanto, a me rimane la delusione dell’ennesimo progetto scelto per delle caratteristiche che nella realizzazione son state totalmente tradite: da fiera mondiale dell’agricoltura a esposizione di padiglioni dove di natura c’è ben poco a parte il padiglione austriaco che ricostruisce il microclima della foresta, meraviglia tecnologica che poco c’entra con il nutrire il pianeta. Perché dovrei acquistare un biglietto, fare una coda interminabile tra il cemento, per vivere l’esperienza della foresta montana quando a 300 chilometri da qui potrei immergermi in una foresta vera? La delusione è stata tale da riuscire a trasformare l’entusiasmo di qualche mese fa in un totale disinteresse, frantumando il sogno di vedere, e magari parlare, con agricoltori di tutto il mondo; un giro in bicicletta tra cascine e fattorie didattiche sarà per certo più istruttivo di quel che potrei vedere ad Expo.

nuova-sede-fondazione-prada-milanoLa seconda inaugurazione è quella della sede della Fondazione Prada, progetto di Koolhaas, lo stesso della Biennale sui Fondamenti e sulla responsabilità morale dell’architetto, che qui, immemore di quanto affermato meno di un anno fa, si concede, in un momento economicamente molto difficile a livello mondiale, di rivestire in oro un edificio. Non mi interessa entrare nel merito del progetto, mi interessa la valenza simbolica di una scelta di questo tipo: ci son materiali di gran lunga più costosi dell’oro, ma scegliere l’oro a Milano, la foglia d’oro, richiama quel risotto di Gualtiero Marchesi, e quegli anni Ottanta in cui entrò in scena, che a Milano si rimpiangono come un Eden perduto. Poco importa che siano stati l’inizio del pantano in cui ci troviamo. La risposta di uno degli esponenti del motore economico italiano ai problemi dell’oggi, è un’ evocazione nostalgica dei tempi che furono che suona come l’orchestrina del Titanic piuttosto che come le fanfare della rinascita che si vorrebbe alle porte (se parli con qualcuno a Milano è per certo in fase di startup, di che cosa non è dato sapere). Certo non ci si deve stupire, vista l’ambiguità di Koolhaas, al limite si può sorridere di tanto entusiasmo per un intervento che sa di scuola di bottega, ma tant’è, oramai è sufficiente il connubio Prada-Koolhaas per far gridare alla meraviglia. Meraviglia che si estende alla collezione ivi esposta, dei marmi (scusate la poca poesia) per copia dal vero all’aaccademia di belle arti associati ad artisti contemporanei che han ragione di esser lì solo in quanto investimento economico. Mi è quasi venuto da pensare che Pinault sia, nella scelta dei suoi investimenti, più onesto e coerente della Miuccia.

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P/E 2012

Davanti al generale entusiasmo percepito mi stupisco del fatto che, anche tra operatori di settore, nessuno si chieda cosa possa legare lo stile di Miuccia Prada alle opere di Bourgeois, così estranee alla donna che Prada propone nelle sue sfilate.

Maman - 2008

Maman – 2008

E mi chiedo come sia possibile tanto entusiasmo di pubblico considerato il gusto con cui gli italiani arredano casa: se qualcosa di positivo hanno i social network è quello di farti entrare in tante case senza nemmeno dover chiedere il permesso, in un certo senso il fiume di fotografie ti ci scaraventa dentro tuo malgrado: gli interni che la frenesia di esposizione del privato permette di osservare sono così lontani, se non antitetici, da Koolhaas da far guardare con sospetto all’autenticità di tanto entusiasmo. Ma altrettanto sospetto desta chi, malgrado abbia amato un film come La grande bellezza, dove tutto ciò che è contemporaneo è vacuo ed effimero a fronte di un’antichità perpetua e bella, si entusiasma per il coacervo di forme contemporanee che si può vedere ad Expo o per le scelte formali della Fondazione Prada o i ragni della Bourgeois.

E’ questa incoerenza, che io definisco superficialità, a togliermi le parole: toglie le parole perché vanifica il pensare, il farsi domande, il ragionare, il lavorare con quei pochi strumenti che si hanno, che si sentono essere insufficienti e rozzi e che si tenta di migliorare, per lasciar posto ad una sorta di opportunismo social culturale di facciata.

 

Per la prima volta la Biennale Architettura ha una durata pari alla Biennale Arte, non saprei dire se l’affluenza di pubblico di questa edizione farà sì che questa novità si manterrà anche in futuro. Non perché non sia un’edizione di spessore, anzi, ma è una Biennale con pochi progetti e molte riflessioni sul fare architettura: Rem Koolhaas si conferma il fine intellettuale e architetto sismografo (molto più dei protagonisti dell’edizione che ebbe per titolo proprio l’architetto come sismografo del suo tempo) che è ormai da anni.
Il tema della Biennale di quest’anno ha scatenato il mio entusiasmo fin dalla sua presentazione: solo un pensatore intelligente, arguto ma soprattutto ironico come Koolhaas, indagatore della tabula rasa fin dai suoi primi scritti, poteva proporre come tema una riflessione sulla modernità e sul suo impatto sulla tradizione. Con il senno del poi la riflessione di tutti è stata un po’ prevaricata dalla macchina analitica di Koolhaas e dei suoi emuli/seguaci, ad ogni modo Fundamentals, suddivisa nelle due solite sedi principali, si articola in tre sezioni: Elements of Architecture, al Padiglione Italia dei Giardini, Monditalia all’Arsenale ed i contributi sul tema Absorbing Modernity: 1914-2014 delle diverse nazioni partecipanti suddivise tra le due sedi e gli spazi sparsi per la città.

BelgioAbsorbing Modernity: 1914-2014
Forse una inconscia avversione all’establishment, anche se rappresentato da Koolhaas che amo e adoro, mi porta a valutare sempre come più dinamici e stimolanti i contributi dei diversi paesi, sia che presentino qualcosa di facilmente riconducibile al tema principale, sia che se ne stacchino sideralmente: a distanza di tempo rimangono impressi nella memoria il metafisico Belgio, che si chiude in uno spazio domestico ridotto all’osso; una Danimarca che non vuole rinunciare alla dimensione dei sensi, il sarcasmo russo con un’architettura ridotta a fiera; il confronto del Mozambico che, giustapponendo vicende internazionali e nazionali fa emergere, più di molte analisi, sia come l’International Style è stato più pervasivo di qualsiasi movimento architettonico nel condizionare forme e scelte progettuali sia lo iato esistente tra la capacità di assorbimento dei cambiamenti del tessuto urbano, dinamico e versatile, e quella del tessuto rurale che, nel caso specifico del Mozambico, risulta del tutto impermeabile all’innovazione. Più tradizionale e didattico l’omaggio a Bakema del padiglione Olanda; puntuale, corretta, ma anche “ovvia” la critica del padiglione francese; sempre attento al tema della collaborazione, senza però addentrarsi sugli effetti del colonialismo, l’allestimento dei Paesi Nordici. Il padiglione italiano, Innesti, più che una riflessione sul tema dell’inserimento del moderno in un contesto storico mi è parso un promo per Milano in vista di Expo 2015 e un’occasione per dar visibilità a qualche progettista italiano, più o meno giovane. Ho trovato i progetti per il riutilizzo dell’area di Expo imbarazzanti, più interessanti le tavole a collage, forse le uniche a potersi considerare una riflessione meritevole sul tema dell’innesto.

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Questa sezione si apprezza in quanto corollario al volo teorico di Monditalia, una necessità quasi vitale di ancorarsi al fare pratico dell’architettura per non perdersi troppo nella divagazione analitica: il fondamentale, qui, è un nuovo approccio alla trattatistica/manualistica storica-tecnica identificato in un corpo di sedici elementi: pavimenti, muri, soffitti, tetti, porte, finestre, facciate, balconi, corridoi, camini, sanitari, scale, scale mobili, ascensori, rampe. L’allestimento ha il merito di ridurre al minimo l’effetto “fiera addetti ai lavori” che il proporre un catalogo, e la presenza di modelli scala 1:1, potevano comportare. Ho trovato in questa sezione tutta l’ironia di Koolhaas, soprattutto pensando al dispiegamento teorico messo in campo dal gruppo di studio composto prevalentemente da architetti e ricercatori italiani alle Corderie.

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Camminando tra le varie sezioni ho avuto l’impressione di assistere al risultato finale di un workshop dove gli allievi vogliono mostrare di aver ben appreso gli strumenti di analisi e le tematiche di interesse del docente principale. Quarantuno installazioni per quarantuno temi che caratterizzano la situazione italiana ma che fanno parte di una riflessione in generale sul fare architettura, visivamente e spazialmente uniti dalla riproduzione della Tabula Peutingeriana e dalla sequenza di film in cui architettura e ambiente sono soggetto e non mero sfondo. Non sempre le riflessioni hanno suscitato in me l’effetto sperato: ho trovato discutibile associare la pletora di villette abusive per le vacanze all’unità minima della maison Domino; i teatri/spazi per la condivisione e discussione, luoghi di incontri interdisciplinari, risultano, non essendo sempre attivi, desolatamente vuoti e abbandonati e le proiezioni video di ciò che è lì avvenuto tra incontri, concerti e spettacoli di danza, non riescono a compensare questa impressione; così come il video con Boeri sulla Maddalena, più che sembrare un’umile autocritica come doveva essere nell’intenzione del curatore, mi ha fatto pensare a una denuncia/piagnisteo dovuta ai lavori non finiti più che a una presa di coscienza del ruolo anche politico-sociale del fare architettura. Del resto, questa ambiguità c’è anche in Koolhaas che, nell’introduzione al catalogo, si chiede come è stato possibile che il mercato abbia invaso così le dinamiche delle nostre vite quando lui per primo non ha mai fatto molto per opporvisi, anzi.

Scegliere l’Italia come laboratorio per mettere in evidenza i temi dell’architettura non è incoraggiante per la salute dell’architettura perché l’Italia, se molto ha da offrire sui nodi da sciogliere, si dimostra bloccata nella capacità di proporre e l’apparato analitico dispiegato per Monditalia conferma proprio questa incapacità ed immobilismo: non c’è la sintesi che di solito segue l’analisi e le partecipazioni nazionali, o il pragmatismo di Elements of Architecture, poco attenuano questa impressione; e poi, diciamolo, Monditalia è anche un po’ noiosa nel suo non aggiungere nulla agli strumenti analitici che oramai si usano da anni (vedere certi grafici mi ha fatto lo stesso effetto della madeleine prustiana riportandomi in un lampo agli anni universitari, ivi compresa la selezione di lungometraggi: questo uso del binomio cinema-architettura è più vecchio di me, e io non sono giovane).

Al tempo stesso non bisogna dimenticare che l’aspetto primario, critico e innovativo rispetto alle passate edizioni, di questa Biennale è l’ambizione di voler definire le regole del gioco dell’architettura quasi a tirare una linea da cui poter ripartire, come ai primi del Novecento fece il Modernismo. Koolhaas, fatta eccezione per Delirious New York, ha sempre tenuto separate  analisi e prassi tanto da arrivare ad individuare due soggetti distinti, AMO e OMA: il primo si occupa dell’analisi, il secondo della progettazione (anche se, questo acronimo al limite del palindromo, fa sì che un termine li contenga tutti e due in un vero e proprio gioco di parole). Ed è questo approccio assertivo, sfidante, sommessamente rivolto alle avanguardie del primo Novecento (dove arte-architettura-cinema-musica erano un tutt’uno sperimentale, soprattutto nelle ricerche dell’avanguardia sovietica) e ad una modernità che, sembra pensare Koolhaas, non si è mai veramente capita e attuata, a conferire a questa Biennale, malgrado alcune perplessità, soprattutto il merito di far uscire il visitatore dalle sedi espositive con addosso una vitale voglia di pensare e progettare,  anche più di quanto possa aver fatto fino ad ora, ed in possesso di alcuni fondamentali da cui partire, sia che li condivida sia che sia sua intenzione confutarli.

Ovvero Nessi di Alessandro Bergonzoni, Le Meraviglie di Alice Rohrwacher ed Estoy viva di Regina José Galindo

Nessi

Il nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni è forse il più politico tra i suoi che ho visto, anzi, antepolitico come per certo preferirebbe scrivessi. Il flusso di parole, mai casuale ma sempre causale, questa volta racconta la necessità/dovere di stabilire dei nessi con gli altri e con le cose invitando a superare l’idea della morte quale punto di partenza di questa ricerca di collegamenti evitando il suo svilupparsi come monologo a ritroso per trasformarla in un dialogo in anticipo: invece di aspettare che la morte renda questa ricerca superflua e tarda è preferibile mettere in scena un finto funerale per iniziare a tessere, scoprire, coltivare, quei nessi che già ci sono, malgrado il nostro ignorarli, per il solo fatto di essere venuti al mondo, di essere padri, madri, figli. 

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Bergonzoni condivide la scena sia con tre incubatrici di pensiero, oltre che di una vita in cui i centoquaranta caratteri devono essere le possibili sfaccettature dell’essere umano e non i caratteri di un tweet, sia con gli animali nati dalla sua immaginazione e questa parte più visionaria, costruita giocando con la lingua russa, è forse la meno organica allo spettacolo. 

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Cercare i nessi, viverli, è anche smettere di celebrare le azioni altrui, commemorare eroi, per divenire soggetto in ogni momento della giornata: non si vota solo alle elezioni, si vota in continuazione perché in continuazione si sceglie con chi stabilire dei nessi. Si può fare la rivoluzione iniziando da noi stessi, dal nostro interno, perché noi per primi siamo una piazza in un insieme di milioni di piazze. Un’ode al qui e ora e alla relazione e prossimità fisiche.

Le meraviglie

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Le meraviglie di Alice Rohrwacher sanno invece di vecchio e già visto: l’inquietudine dell’adolescente Gelsomina diventa il pretesto per raccontare due mondi in antitesi, uno legato alla natura e ai suoi ritmi l’altro esemplificativo dei criteri economici di produzione e di profitto. Il primo è rappresentato dalla famiglia di Gelsomina dove si dialoga in tre lingue, con il padre apicoltore dal passato politico movimentato, che dorme all’aperto, odia i cacciatori e cresce le figlie in una personalissima idea di libertà ma di fatto imponendo il suo stile di vita e il suo modo di amare a tutto il nucleo familiare; il secondo si identifica col produttore di salumi, dotato di televisione, utilizzatore di pesticidi forniti dal consorzio che uccidono le api, desideroso di trasformare la fattoria in un agriturismo in vista di un’apertura del territorio in cui vive al turismo. Il cerimoniere di questo matrimonio tra tradizione contadina e modernità turistica, reso allettante dal denaro e imposto con le norme burocratiche, è la televisione e la sua ammaliante finzione che tutti riesce a sedurre o ammutolire, anche chi le si vorrebbe opporre. Che questo matrimonio sia avvenuto è sotto gli occhi di tutti, sicché l’immagine conclusiva non poteva che essere il casolare della famiglia di Gelsomina ormai abbandonato e chiuso. Le meraviglie strizza l’occhio in ogni modo possibile, anche se non spudoratamente, a quel cinema che ha in Cannes la sua Accademia, per cui il premio ottenuto non stupisce.

Estoy viva

Fino all’otto giugno era possibile visitare al PAC la personale di Regina Josè Galindo

  ¿Quién puede borrar las huellas? (2003)


¿Quién puede borrar las huellas? (2003)

Galindo è quello che cerco nell’arte: il fare artistico che si fa azione per riflettere politicamente sulla realtà tralasciando completamente la propria biografia, insomma non è un Hirst che perché utilizza un sacco di medicinali, in quanto ipocondriaco, ne fa un’opera che, per traslato, può divenire anche rappresentazione della nostra società consumatrice di medicinali e dedita all’oblio del dolore e della sofferenza auto condannandosi, così, nella sua perpetua fuga nell’oblio, all’assenza di catarsi. Galindo, invece, parte dalla realtà sociale e politica della sua nazione, il Guatemala, e raccontandola riesce a superare i confini della mera denuncia di questioni nazionali per aiutare a riflettere su temi universali come la violenza, la libertà, la condizione della donna, la vita e la morte. 

Esperando el príncipe azul (2001)

Esperando el príncipe azul (2001)

Galindo si esprime principalmente utilizzando il proprio corpo, documentando le azioni che agisce su di esso con la fotografia ed il video e realizza delle sculture da intendere però come la riproduzione di oggetti reali, come nel caso di Tonel (2011), che riproduce i bidoni in cui i cadaveri di uomini e donne assassinati, e a volte anche straziati dalle torture, venivano gettati per le strade. 

El peso de la sangre (2004)

El peso de la sangre (2004)

Il video, come mezzo espressivo, a volte comporta una difficoltà, che è quella della sua durata, soprattutto in esposizioni dove sono presenti molte opere: il susseguirsi di video dalla durata importante diventa un impegno a volte difficile da sostenere per il visitatore. Nel caso di Galindo i video dalla durata maggiore sono costruiti in modo tale da riuscire a comunicare il senso senza che sia necessario vederli dall’inizio alla fine, come è invece fondamentale per The Column di Adrian Paci.

Piedra (2013)

Piedra (2013)

L’esposizione si articolava in cinque sezioni: Politica, Donna, Violenza, Organico e Morte, in cui le opere erano presentate senza quelle lunghe didascalie che troppo spesso fanno capolino nelle mostre distraendo il visitatore dalla visione delle opere. Al riguardo non posso che condividere ed apprezzare la scelta dei curatori di fornire al visitatore il commento alle opere, tra l’altro coincidente con le parole dell’artista stessa e non di un critico, su un pieghevole che era possibile prendere all’ingresso riuscendo così a dare due volte la parola all’artista, sia nell’immediatezza dell’opera che nella descrizione che egli stesso ne dà, e lasciando al visitatore la libertà di seguire i propri tempi e modi di visitare l’esposizione e relazionarsi con le opere. 

No perdemos nada con nacer (2000)

No perdemos nada con nacer (2000)

Malgrado questa sia l’arte che preferisco per dovere di cronaca va detto che non tutte le opere hanno la stessa efficacia ed intensità come è normale che sia; delle cinque sezioni quella che mi ha meno coinvolto è Organico, in cui Galindo cerca di indagare il rapporto con la natura. Ciò detto era da molto tempo che non vedevo una mostra di così buon livello, sia per la qualità delle opere esposte che per la curatela di Diego Sileo ed Eugenio Viola.

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Non si uccidono così anche i cavalli è un romanzo scritto da Horace McCoy nel 1935, a ridosso della Grande Depressione che segui il tracollo borsistico del 1929. Racconta di certe maratone di ballo a cui uomini e donne partecipavano per aver sette pasti al giorno assicurati, tra pranzi e spuntini, e poter vincere, resistendo fino alla fine, 1500 dollari. La disperazione e il desiderio di riscatto delle persone che partecipavano a queste maratone divenivano lo spettacolo per chi dalla crisi stava uscendo, o non vi era mai entrato, e pagava un biglietto per vederle ballare fino allo sfinimento, curioso di scoprire quale sarebbe stata la coppia che avrebbe resistito anche solo un secondo in più dell’ultima coppia rinunciataria così da poter vincere i 1500 dollari, cioé un futuro.

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Come in tutti i sogni, o spettacoli, americani che si rispettino non era detto fosse necessario arrivare alla fine, per divenire un vincente, poteva capitare il colpo di fortuna lungo la via: a questa gara, dove si balla, si resiste ma soprattutto si mette in mostra il meglio di sé fino allo spasimo, potevano assistere anche impresari, produttori, registi di Hollywood alla caccia della nuova star da lanciare. Sicché chi partecipava a queste gare, oltre che con il sogno di vittoria, conviveva anche con la promessa di un imprevisto colpo di fortuna. Certo la realtà dei fatti era molto diversa: il vincitore dei 1500 dollari avrebbe dovuto ripagare quanto la sua resistenza fisica e psichica era costata in termini di vitto e alloggio, la carriera di chi aveva avuto la fortuna di essere incoronato nuovo talento lungo il percorso correva il rischio di esser più veloce di una meteora. L’amara realtà era che quello che veniva proposto come l’occasione di una vita era solo un business utile a mantenere chi lo organizzava: chi vi partecipava era carne da macello, né più né meno, non v’era redenzione, non si poteva uscire dal proprio inferno, anzi, si era condannati a viverlo fino alla fine e, a un cavallo azzoppato, non si spara come atto di pietà?

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Lo spettacolo è ben costruito, gli attori/danzatori sono bravissimi e bella è l’idea di far sì che noi pubblico si diventi parte della messa in scena; a mancare è l’aggiornamento del testo ai giorni nostri. Forse avevo aspettative sbagliate, memore dell’ominimo film di Sidney Pollack che vidi ormai trent’anni fa e di cui ricordo con chiarezza il primo piano di Jane Fonda e lo sparo di pistola fuori campo, eppure penso potesse divenire un soggetto attuale non solo per il riferimento a reality show come il Grande Fratello o X Factor, ma soprattutto perché, nel mondo del lavoro contemporaneo, si stanno sviluppando dinamiche analoghe a quelle di queste maratone, con contratti a termine rinnovati all’infinito, con le persone costrette a lavorare sotto la spada di Damocle di una possibile leggera flessione di produttività che può comportare il rischio di non vedersi rinnovare il contratto, in strenua e continua competizione con il collega accanto e con se stessi, sopportando infinite fatiche, tensioni, ansie, che hanno come unico premio un rinnovo che non è altro che prolungare un’agonia. Davvero, Non ci uccidono così anche i cavalli?

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Invece la lettura proposta fa sì che lo spettacolo rimanga una storia dagli anni ’30 che ci porta a riflettere sul valore che si dà all’esistenza delle persone con criteri per certi versi datati. Uscendo da teatro rimane l’impressione di un bello spettacolo, magistralmente eseguito e, al tempo stesso, di un’occasione persa di trasformare un testo teatrale di altri tempi in qualcosa di pulsante e vitale.

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Verrà prorogata, quindi sarà possibile andare all’Hangar Bicocca per vedere The Visitors dal 5 dicembre e fino al 5 gennaio prossimo. Nove schermi su cui vengono proiettate nove riprese in scala 1:1 ambientate in una casa di una ricca e influente famiglia statunitense oramai in declino: otto stanze per otto musicisti e il patio esterno per un gruppo tra ospiti e strumentisti; suonano contemporaneamente la stessa canzone, ognuno per la parte che gli compete. Noi visitatori, muovendoci nello spazio delimitato dai nove schermi e appena illuminato dalle proiezioni, oscilliamo tra l’ascolto dell’insieme e una maggiore attenzione al contributo del singolo musicista quando ci si avvicina allo schermo con la proiezione che lo riguarda: l’insieme, la voce che si distingue nell’insieme senza mai uscirne completamente, un’unità nelle differenze, un’unione nella solitudine. La ripetizione, più che noia, diviene impegno, riflessione e resistenza, un ripetere che non è mai uguale a se stesso e che è quasi dialogo, sebbene a distanza. La vita, in una canzone e una ripresa di sessanta minuti eseguite in un’unica sessione, senza soluzione di continuità, al tramonto. Un’esperienza completamente emotiva frutto di una raffinata costruzione razionale che nulla lascia al caso.
20131124-223651.jpgSi parla molto di crisi culturale e credo che questa dipenda, anche, dalla pressoché costante esclusione di certi esempi e temi ormai storicizzati dai termini della discussione. Ieri ho seguito l’incontro organizzato nell’ambito di BookCity su “L’invasione degli ultraschermi” relatori Fausto Colombo, Vanni Codeluppi, Marco Belpoliti: il primo non lo conoscevo, degli altri due avevo già letto qualcosa. L’incontro è stato, in pratica, la presentazione ragionata ed argomentata dell’ultima fatica di Codeluppi sul tema dell’influenza di internet e della sua fruibilità tramite dispositivi digitali sulla nostra vita sociale e psichica. La discussione ha sollevato diversi temi tra cui: il ritenere la rete, e la gratuità che essa può comportare nella fruibilità di certi contenuti (musica, libri, film, etc.), una possibile responsabile dell’attuale  scarso valore che si attribuisce al lavoro intellettuale ed artistico; l’esistenza di una parte di mondo che è più impegnata in guerre religiose che in filosofeggiare sugli effetti della rete sulla psiche; una panoramica sui dilemmi dell’era moderna con cui, volenti o nolenti, lottiamo dal 1789 in poi.
A parte la delusione che a volte simili incontri possono comportare – Belpoliti è lo stereotipo dell’intellettuale che fa di tutto per essere controcorrente senza accorgersi di risultare solo patetico nel suo vantarsi di non avere una televisione dagli anni  Ottanta, che sia per quello che Freccero per rilanciarsi si definisce comunista mentre Belpoliti riesce ad esser solo banale nel ricordare che in oriente ci sono persone che pregano cinque volte al giorno e torturano giornalisti mentre noi discutiamo di internet? e dire che basterebbe si andasse a fare un giretto a MadeInSlums in Triennale per scoprire che un artista dello slum ha lasciato il suo recapito Facebook – il grande vuoto che questa presentazione mi ha lasciato poggia su due questioni: l’ostinato ridursi a citare dei pensatori conservatori, come George Steiner, che comporta la dimenticanza di eventi storico-artistici che in un’analisi conservatrice non vengono considerati nemmeno sotto tortura, tanto da eliminare in toto, dal dibattito sul pensiero moderno, la rivoluzione russa del ’17 e il portato che ebbe su lavoro, arte e cultura nonché il sistematico ignorare la letteratura che ha approfondito il tema della gratuità e dei beni comuni, che è poi alla base  anche di altre questioni quale, per esempio, quella del reddito di cittadinanza, che poco ha a che fare con il sussidio di disoccupazione che sta occupando il dibattito attualmente.
Sicché stavo lì, a sentire queste tre persone che avrebbero dovuto illuminarmi, rimbalzarsi la palla su uno stato delle cose di cui conoscevano molti aneddoti, aspetti, conseguenze ma nessuna possibile soluzione e che illustravano le proprie tesi  cercando, al contempo, di rimarcare le rispettive differenze, i confini del proprio apporto, aspirando anche al mettersi argutamente, dal loro punto di vista, vicendevolmente in difficoltà (rientrando perfettamente nell’immagine dell’uomo quale individuo in una sua bolla narcisistica di cui volevano mostrare i limiti).
Non è certo la prima volta che accade: capita spesso di assistere a dibattiti che analizzano la situazione attuale con paradigmi vecchi, adagiati pedissequamente sull’ideologia del liberismo vincitore di cui stiamo subendo una controffensiva che non lascia respiro, come ben argomenta Gallino. Ammetto, non ho avuto il coraggio di fare un intervento, ieri: perché ho bisogno di tempo per metabolizzare le cose e mi imbarazza parlare in pubblico.  Ma dopo tutto non è nemmeno il mio mestiere, anche se probabilmente il fatto che io stia vivendo la vita non proprio gratificante che sto facendo dipende dal fatto che “a fare gli intellettuali” siano persone di questo tipo.
All’uscita c’era un questionario, si chiedeva la mia opinione su BookCity. Con il senno del poi, di una notte di sonno che porta consiglio e la prospettiva di altri sei giorni di un lavoro di merda mentre persone intellettualmente vecchie riescono a campare pensando, ed insegnando, concetti datati, penso che la mia limitatissima esperienza di BookCity (l’altro incontro a cui ero interessata è stato annullato) sia stata un’ennesima occasione di diffusione di un pensiero main stream anche quando vorrebbe essere critico. Non rimane altro che andare altrove… …il party sta migliorando di momento in momento ma io me ne andrò con nient’altro che fede.

In Triennale ci sono sempre diverse mostre tra cui scegliere, ho deciso per Porto Poetic e Made in slums: la prima dedicata ai due maestri più conosciuti della cosiddetta Scuola Portoghese, Alvaro Siza e Souto de Moura, e altri suoi esponenti: Fernando Távora, Adalberto Dias, Camilo Rebelo and Tiago Pimentel, Carlos Castanheira, Cristina Guedes e Francisco Vieira de Campos, Isabel Furtado e João Pedro Serôdio, João Mendes Ribeiro, José Carvalho Araújo e Nuno Brandão Costa; la seconda un reportage tra video ed oggetti della vita di Mathare, uno slum di Nairobi.

Ippopotamo

Giocattolo fabbricato intrecciando sacchetti dell’immondizia, bottoni, materiale di recupero per l’imbottitura

Made in Slums.
Non si può toccare nessun degli oggetti esposti, utensili ricavati dal riutilizzo del materiale di scarto reperibile nelle discariche, non si po(trebbero)ssono fare foto; guardare e non toccare coerentemente ai nostri tempi vouyeristici. Gli utensili sono oggetti utilizzati nella vita di tutti i giorni: bracieri per tenere in caldo cibi venduti in carrettini ambulanti, salvadanai ricavati da barattoli in latta che contenevano prodotti liquidi di varia natura, una versione auto-prodotta del secchio con strizza mocio per la pulizia dei pavimenti, dei giocattoli, strumenti musicali, sandali ricavati da copertoni particolarmente apprezzati dai Masai per la loro resistenza, etc. Seguendo i video è possibile conoscere la storia di qualcuno degli abitanti dello slum di Mathare, le sue aspirazioni, illusioni, come la ragazza che mantiene sé, e tutta la sua famiglia, ballando e che vorrebbe venire da noi perché da noi l’arte è rispettata, l’arte è pagata (in Italia, come no!). Questa mostra è un’esperienza straniante perché quel che si vede non è documentazione di un’epoca lontana, ma di una vita che si sta svolgendo ora, in questo momento, sia esso il momento della visita alla mostra o questo della scrittura di queste poche righe. E poi vi è l’immoralità insita in come è stato sviluppato questo progetto a cura di Fulvio Irace, nello spacciare per design quel che è la mera razionalità del saper sopravvivere quotidiano e renderne addirittura non riproducibili i frutti di questa sopravvivenza per far vendere un catalogo. Scrivo immorale in quanto dubito che il ricavato di questa mostra ritornerà ai suoi veri protagonisti, a chi l’ha resa possibile. Vi è uno sfruttamento economico di una situazione, urbana, sociale, esistenziale, che è frutto a sua volta di uno sfruttamento economico. Sfruttamento al quadrato. Del resto, siamo nell’epoca in cui l’economia è solo speculazione finanziaria.

SizaMouraPortoPoetic.
L’architettura portoghese in modelli, interviste, fotografie, disegni, oggetti di design. Una mostra per architetti, in cui è il progetto architettonico nel suo iter progettuale ad essere il punto di interesse (finalmente): ci sono molti schizzi, appunti, studi a penna provenienti dagli archivi di Alvaro Siza e Souto de Moura in cui è possibile vedere la vitalità del processo intellettuale in cui l’idea progettuale si forma e/o si definisce. Un architettura del sussurro, del gesto modesto ma fermo, chiaro, deciso e determinato, attento al contesto in cui va a collocarsi; un’architettura in cui l’edificio è elemento spaziale, senza far sentire la mancanza degli eccessi scultorei a cui la computing-architecture ci ha un po’ assuefatti: un’architettura della contemplazione silenziosa, piuttosto che dello stupore meravigliato. Il progetto espositivo lascia qualche perplessità, un po’ per il non immediato raffronto tra disegni, plastici e immagini degli edifici, un po’ per l’affastellamento degli oggetti di design nell’ampia sala quadrata centrale, frammisti a modelli di progetti architettonici i cui disegni sono letteralmente incollati, con colla ad acqua e conseguenti immancabili “ondine”, su dei pannelli di balsa appesi alla parete alla meno peggio. Nemmeno agli esami universitari ho visto un’esposizione così imbarazzante. Forse il budget per mostre di questo tipo è molto contenuto, e la durata alquanto limitata della mostra, aperta il 13 settembre chiuderà il 27 ottobre, lo potrebbe confermare, ma è anche vero che da studenti non si aveva gran budget, eppure si usavano dei materiali non particolarmente costosi che garantivano risultati dignitosi.

Cattive notizie.
Dopo tutto son tempi in cui per la cultura, e la sua diffusione, ci son sempre meno risorse, a meno che non si decida di investire in supermercati camuffati da librerie come la Feltrinelli RED a Porta Garibaldi. Per l’ennesima finta libreria che apre una fondazione è costretta ad abbandonare la sua sede storica: la Fondazione Forma non sarà più negli spazi da lei stessa ristrutturati presso il deposi o Atm in piazza Tito Lucrezio Caro e si trasferirà in via Piranesi. C’è da sperare che questo trasferimento non sia il preludio di una chiusura.

Son riuscita ad andare a vedere qualche spettacolo de Uovo festival.
Purtroppo non ho avuto molto tempo e la scelta si è limitata a tre spettacoli: La sagra della primavera e delirio a Las Vegas, (M)IMOSA twenty looks or Paris is burning at the Judson Church, e Love will tear us apart. Forse ho scelto i tre spettacoli sbagliati, ma devo dire che, per due terzi, son rimasta alquanto delusa.

rizzo_08ok-840x558La sagra della primavera e delirio a Las Vegas: danza scomposta, decostruita, ok, d’accordo, ma era nuova trent’anni fa. Nella presentazione del lavoro si alludeva al crearsi di una situazione per cui vi sarebbe stata laa musica ascoltata dagli spettatori in cuffia, La sagra della primavera di Igor Stravinskij per l’appunto, e la musica che Cristina Rizzo avrebbe danzato: allo spettatore la scelta se seguire la musica nelle proprie cuffie o quella seguita della ballerina in scena. Era stimolante l’idea di un danzare che contemporaneamente interpretasse due testi musicali, peccato che nello spettacolo la contemporaneità non ci sia stata: la musica della ballerina, anche coreografa e ideatrice, era la stessa che usciva dalle cuffie di noi spettatori, eccetto negli ultimi minuti in cui abbiamo sentito la musica che usciva dagli auricolari che indossava, le nostre cuffie totalmente mute. La possibile disarmonia/armonia tra musica e movimento, o la disarmonia/armonia nell’ ascoltare/veder danzare contemporaneamente  due testi musicali non si son proprio viste.

MIMOSA-06-840x558L’apoteosi della delusione (M)IMOSA di e con Cecilia Bengolea, François Chaignaud, Trajal Harrell, Marlene Monteiro Freitas: definirlo uno spettacolo vecchio è esser indulgenti; considerarlo una riflessione sul transgender vorrebbe dire esser troppo generosi; le battute della Mimosa drag sono prese paro paro dal monologo di Agrado in Tutto su mia madre di Almodovar, solo che Agrado è più divertente. Nei primi quindici minuti gli unici due inserti degni di nota: uno in cui la danza si contamina con i movimenti sincopati della danza africana e una sequenza in cui il ballare sulle punte è in realtà un muoversi su tacchi vertiginosi, divenuti quasi parte del corpo stesso, con dei movimenti a terra anche inediti. La cosa che mi ha stupito di più l’entusiasmo quasi fanatico del pubblico: noi lì impietriti e questo totalmente entusiasta, forse che l’età media era sopra ai quarant’anni ed eran tutti dei parrucconi ben vestiti a cui piace mostrare di non scandalizzarsi in certe situazioni. Per il resto, danza e novità non pervenuti.

Pensando ai rossi stiletti di (M)IMOSA o ad uno spettacolo visto alla Biennale Danza del 2007 Body Remix/Goldberg Variations della COMPAGNIE MARIE CHOUINARD mi stavo chiedendo se la danza potesse aver qualcosa di inedito da proporre solo contaminando la capacità espressiva del corpo con una specie di periferica, siano i tacchi in (M)IMOSA o le stampelle in Body Remix/Goldberg Variations, quando sono andata a vedere Love will tear us apart di Saša Božić. Che mi ha smentito.

Sasa-Bozic_02-840x558Una ventata di freschezza, dovuta soprattutto alla interpretazione di Petra Hrašćanec, dove la coreografia parte da un’idea semplice e forse proprio per questo così piacevole. Cinque brani musicali, ogni brano interpretato per qualcuno in particolare: il direttore del festival che ha comprato il pezzo, noi pubblico, per se stessi, per uno spettatore scelto in quel momento, per un amore di diversi anni fa con una felice leggerezza dovuta al non voler forzatamente stupire.

Presso l’Hangar Bicocca, dal giovedì alla domenica e fino al 3 febbraio, è possibile esperire On Space Time Foam l’installazione che Tomas Saraceno ha progettato per il Cubo dell’Hangar che la ospita.

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Come avrete avuto modo di leggere in tutti gli articoli, trafiletti, richiami che ne hanno parlato, o potrete leggere sull’elegante brochure disponile nella hall dell’Hangar mentre attenderete il vostro turno, le opere di Saraceno, artista e architetto argentino ma residente a Francoforte, sono “ispirate alla tradizione dell’architettura utopista del ‘900, nascono dal desiderio di creare strutture aeree abitabili dall’uomo, energeticamente autosufficienti e a basso impatto. Saraceno, che secondo la sua stessa definizione “vive in mezzo e oltre il pianeta Terra”, ha tra i principi ispiratori del suo lavoro il superamento delle barriere geografiche, fisiche, comportamentali, sociali; la ricerca di modalità di vita sostenibili per l’uomo e per il pianeta; l’incontro e lo scambio tra discipline e saperi differenti; il modello di rete e condivisione applicato a tutte le fasi dell’ideazione e della realizzazione di opere e progetti”. L’interazione tra le persone che, a gruppi di cinque, possono entrare nell’installazione diviene naturale ed è, per certo, elemento molto presente.

Ma, oltre all’interazione, v’è anche la vita come susseguirsi di equilibri momentanei. È vero, l’equilibrio è dovuto alla collaborazione di tutti, ci si ferma un momento perché ci si accorge che si è raggiunto una certa armonia, la si gode, ci si sorride e ci si sente complici con persone che nemmeno si conoscono. Ma poi è inevitabile doversi muovere, cambiare posizione e dover cercare un nuovo momento di equilibrio. Un’esistenza caduca, di continue fini e sempre nuovi inizi. Per questioni di peso non si può star troppo vicini, “il modo ideale per far durare le convivenze” ha detto ridendo la mia dolce metà; eppure è vero che, in un’esperienza che è contemporaneamente solitaria e comunitaria, il ritrovare sempre la stessa faccia a sbucare da improvvisi rigonfiamenti e avvallamenti è atto di volontà di cercarsi, guardarsi a distanza e non perdersi mai di vista. C’è la possibilità di godersi il proprio spazio, la propria solitudine, forti del sapere di avere accanto, da qualche parte, qualcuno e che quel qualcuno, suo malgrado, alimenta il tuo ben stare. Una condivisione a distanza, se si vuole, consona a questi tempi di rapporti (anche) online. Ma, a differenza di quest’ultimi, nelle bolle di Saraceno non esiste la possibilità on-off del virtuale, si è sempre accesi, sempre coinvolti, costantemente parte di un sistema dinamico di equilibri successivi.