Ovvero Nessi di Alessandro Bergonzoni, Le Meraviglie di Alice Rohrwacher ed Estoy viva di Regina José Galindo.
Nessi
Il nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni è forse il più politico tra i suoi che ho visto, anzi, antepolitico come per certo preferirebbe scrivessi. Il flusso di parole, mai casuale ma sempre causale, questa volta racconta la necessità/dovere di stabilire dei nessi con gli altri e con le cose invitando a superare l’idea della morte quale punto di partenza di questa ricerca di collegamenti evitando il suo svilupparsi come monologo a ritroso per trasformarla in un dialogo in anticipo: invece di aspettare che la morte renda questa ricerca superflua e tarda è preferibile mettere in scena un finto funerale per iniziare a tessere, scoprire, coltivare, quei nessi che già ci sono, malgrado il nostro ignorarli, per il solo fatto di essere venuti al mondo, di essere padri, madri, figli.

Bergonzoni condivide la scena sia con tre incubatrici di pensiero, oltre che di una vita in cui i centoquaranta caratteri devono essere le possibili sfaccettature dell’essere umano e non i caratteri di un tweet, sia con gli animali nati dalla sua immaginazione e questa parte più visionaria, costruita giocando con la lingua russa, è forse la meno organica allo spettacolo.

Cercare i nessi, viverli, è anche smettere di celebrare le azioni altrui, commemorare eroi, per divenire soggetto in ogni momento della giornata: non si vota solo alle elezioni, si vota in continuazione perché in continuazione si sceglie con chi stabilire dei nessi. Si può fare la rivoluzione iniziando da noi stessi, dal nostro interno, perché noi per primi siamo una piazza in un insieme di milioni di piazze. Un’ode al qui e ora e alla relazione e prossimità fisiche.
Le meraviglie

Le meraviglie di Alice Rohrwacher sanno invece di vecchio e già visto: l’inquietudine dell’adolescente Gelsomina diventa il pretesto per raccontare due mondi in antitesi, uno legato alla natura e ai suoi ritmi l’altro esemplificativo dei criteri economici di produzione e di profitto. Il primo è rappresentato dalla famiglia di Gelsomina dove si dialoga in tre lingue, con il padre apicoltore dal passato politico movimentato, che dorme all’aperto, odia i cacciatori e cresce le figlie in una personalissima idea di libertà ma di fatto imponendo il suo stile di vita e il suo modo di amare a tutto il nucleo familiare; il secondo si identifica col produttore di salumi, dotato di televisione, utilizzatore di pesticidi forniti dal consorzio che uccidono le api, desideroso di trasformare la fattoria in un agriturismo in vista di un’apertura del territorio in cui vive al turismo. Il cerimoniere di questo matrimonio tra tradizione contadina e modernità turistica, reso allettante dal denaro e imposto con le norme burocratiche, è la televisione e la sua ammaliante finzione che tutti riesce a sedurre o ammutolire, anche chi le si vorrebbe opporre. Che questo matrimonio sia avvenuto è sotto gli occhi di tutti, sicché l’immagine conclusiva non poteva che essere il casolare della famiglia di Gelsomina ormai abbandonato e chiuso. Le meraviglie strizza l’occhio in ogni modo possibile, anche se non spudoratamente, a quel cinema che ha in Cannes la sua Accademia, per cui il premio ottenuto non stupisce.
Estoy viva
Fino all’otto giugno era possibile visitare al PAC la personale di Regina Josè Galindo.

¿Quién puede borrar las huellas? (2003)
Galindo è quello che cerco nell’arte: il fare artistico che si fa azione per riflettere politicamente sulla realtà tralasciando completamente la propria biografia, insomma non è un Hirst che perché utilizza un sacco di medicinali, in quanto ipocondriaco, ne fa un’opera che, per traslato, può divenire anche rappresentazione della nostra società consumatrice di medicinali e dedita all’oblio del dolore e della sofferenza auto condannandosi, così, nella sua perpetua fuga nell’oblio, all’assenza di catarsi. Galindo, invece, parte dalla realtà sociale e politica della sua nazione, il Guatemala, e raccontandola riesce a superare i confini della mera denuncia di questioni nazionali per aiutare a riflettere su temi universali come la violenza, la libertà, la condizione della donna, la vita e la morte.

Esperando el príncipe azul (2001)
Galindo si esprime principalmente utilizzando il proprio corpo, documentando le azioni che agisce su di esso con la fotografia ed il video e realizza delle sculture da intendere però come la riproduzione di oggetti reali, come nel caso di Tonel (2011), che riproduce i bidoni in cui i cadaveri di uomini e donne assassinati, e a volte anche straziati dalle torture, venivano gettati per le strade.

El peso de la sangre (2004)
Il video, come mezzo espressivo, a volte comporta una difficoltà, che è quella della sua durata, soprattutto in esposizioni dove sono presenti molte opere: il susseguirsi di video dalla durata importante diventa un impegno a volte difficile da sostenere per il visitatore. Nel caso di Galindo i video dalla durata maggiore sono costruiti in modo tale da riuscire a comunicare il senso senza che sia necessario vederli dall’inizio alla fine, come è invece fondamentale per The Column di Adrian Paci.

Piedra (2013)
L’esposizione si articolava in cinque sezioni: Politica, Donna, Violenza, Organico e Morte, in cui le opere erano presentate senza quelle lunghe didascalie che troppo spesso fanno capolino nelle mostre distraendo il visitatore dalla visione delle opere. Al riguardo non posso che condividere ed apprezzare la scelta dei curatori di fornire al visitatore il commento alle opere, tra l’altro coincidente con le parole dell’artista stessa e non di un critico, su un pieghevole che era possibile prendere all’ingresso riuscendo così a dare due volte la parola all’artista, sia nell’immediatezza dell’opera che nella descrizione che egli stesso ne dà, e lasciando al visitatore la libertà di seguire i propri tempi e modi di visitare l’esposizione e relazionarsi con le opere.

No perdemos nada con nacer (2000)
Malgrado questa sia l’arte che preferisco per dovere di cronaca va detto che non tutte le opere hanno la stessa efficacia ed intensità come è normale che sia; delle cinque sezioni quella che mi ha meno coinvolto è Organico, in cui Galindo cerca di indagare il rapporto con la natura. Ciò detto era da molto tempo che non vedevo una mostra di così buon livello, sia per la qualità delle opere esposte che per la curatela di Diego Sileo ed Eugenio Viola.